C’è puzza di cuore

Nella domenica mattina
postuma
alla febbrile notte
alcolica
i miei ricordi
sono stralci
da definire
l’unica certezza
è il ristoro
concessomi
da questo materasso
di calda carne
ti componi
questo lo ricordo
e quei momenti
di pace
s’avvinghiano
in me
importunando
il tempo speso qui
a non far niente
un telefono squilla
nessuno risponde
un campanello di bicicletta tintinna
nessuno risponde
pronto?
all’abbacinante tenerezza
a cui mai mi abituai
il mondo fa quello che deve fare
ho portato a termine
una considerevole quantità
di cose inutili
e ho messo mano
su un discreto numero
di donne
da allora
baci dico
bugie dico
sesso dico
a volte bello
a volte meno
probabile
io abbia dimenticato
il tuo profumo
ma t’immagino felice
in una chiazza di denti
sul rustico balcone
delle tue labbra
per me
non c’è male
le mie funzioni digestive
seguono un corso
privo di difficoltà
mangio molto
faccio la cacca tre volte al giorno
e mi ricordo di respirare
potrei smanettarmi
innumerevoli volte
pensandoti
riversa su di me
anche se soffro
le alte temperature
aprire la finestra
per far cambiare aria
in questo pezzo
c’è puzza di cuore

henri detoulu

Scoppia cicala

Mi viene di pensare che le cicale si stiano dando da fare, tutto questo casino urlando, se urlano più di così muoiono, sono sicuro. Anche se non penso che qualcuno che stia soffocando riesca ad urlare così. Allora sono io con le cicale in testa, mi scoppiano le cicale nel cranio. Forse hanno solo sete. E fame. Io pure ho sete e fame ma non rompo i coglioni così, ho dormito quasi quattro ore stanotte sarà l’insonnia e la sete e la fame e il caldo e non ho voglia di urlare. Le cicale ora tacciono. Sfamate o morte. Il cranio mi scoppia comunque è la fame è l’estate è l’alcool. Si sta bene sul letto invecchiando con il cuscino bollente, solo una donna ci vorrebbe a fianco, così, per stare un po’ meglio in due ad ascoltare le cicale che cantano per noi.

Il bambino che voleva aggredire Babbo Natale

Sono un’entità indefinita  che cerca la chiave della porta di casa nel mazzo di chiavi. Ci sono i pacati raggi di sole del primo mattino a illuminarmi le spalle, per quello che ne so adesso potrebbero anche attraversare il mio corpo, anche se la mia ombra mi ricorda che non è così, che è fisicamente impossibile. I colori cambiano, il mondo è sfocato. Ho bevuto di brutto questa vigilia di Natale. A dire la verità sono due mesi che bevo di brutto. Prima fino a mezzanotte, poi le due, poi le quattro. Questa mattina ho battuto il record. Mi sento come un accumulo di vapore che si trascina nell’atmosfera. Trovo la chiave di casa ed entro. Non mi rendo conto dello sbalzo di temperatura. La casa è fredda come di fuori o sono io che sono sbronzo e non sento niente. Poso il portafogli, il cellulare e le chiavi sul tavolo del salotto. Vedo mio figlio seduto accanto al camino coperto da una coperta di pile, tiene un mattarello tra le mani. Ha otto anni. Sembra un bambolotto. Un pupazzo messo lì in un garage, affastellato insieme ad altre decine di oggetti in disuso. Non dovrei lasciarlo solo la notte, veramente non avrei dovuto fare tante cose.
Mi avvicino e lo sveglio: – papà, – mi dice.
Dico:
– Che ci fai qui? – E mi accorgo che la mia voce è diversa, sembra piena di bolle, è la stessa voce che avrebbe la schiuma se parlasse.
– Aspettavo Babbo Natale, volevo difendere la casa da lui, però mi sono addormentato.
– Perché dovresti fare una cosa del genere?
– Tu mi hai detto che se qualche sconosciuto dovesse entrare in casa la prima cosa che devo fare è trovare qualcosa per difendermi.
È coraggioso mio figlio, da chi abbia ereditato questa caratteristica non riesco a capirlo.
Lo prendo in braccio. Mi dice:
– Puzzi d’alcool.
Non rispondo.
– Non sono riuscito a prenderlo, tu dici che è passato mentre dormivo?
– Non lo so, però un regalo te l’ho portato io.

Di quelle botte del sabato sera

Questo è un racconto che è stato pubblicato nella Gazzetta Falisca di dicembre-gennaio 2011. Completamente revisionato e corretto dai refusi e dagli errori ortografici, ho tolto delle parti con dei bei colpi di accetta, e ho sistemato la punteggiatura. Un paio di anni fa ero una capra con l’ortografia e non sapevo minimamente cosa fossero le regole redazionali. Meno conosci e più pensi di poter fare come ti pare. Era la prima volta che provavo ad inviare qualcosa scritto da me per una pubblicazione e timidamente chiesi loro se potesse interessargli. Mi risposero così: “Cazzo Danilo, è bellissimo. Certo che ci interessa un racconto così, molto meglio di tante elucubrazioni sterili”. La prima cosa che pensai fu: che cazzo significa elucubrazioni?
Rileggendolo oggi, devo dire che mi diverte ancora.

Di quelle botte del sabato sera

Mi piace ballare. Quando capita di doverlo fare in discoteca lo faccio con piacere. Ti fai una bevuta, poi due, poi tre, poi non te le ricordi.
Mi aggrada anche vestirmi bene quando ce n’è l’occasione. Intendo una camicia, il cappotto, il maglione. Niente di eccessivo. Rimango sempre sullo sportivo.
Le occasioni migliori per far combaciare le due cose sono le feste. Oggi è una di quelle giornate. Stasera ho una festa.
Sono appena uscito dalla doccia, mi sto vestendo. Il vapore si mette tra me e lo specchio, che si appanna. Lo soffio via con lo scaldabagno, è il 4 dicembre, e fa freddo. Metto i jeans e mi abbottono la camicia nera. Mi infilo il maglione grigio topo. Odio mettere il maglione sopra la camicia perché è difficile, una perdita di tempo; prendi sotto e tira qua, tieni la manica e tira su.
I capelli sono a posto, sono rasato. La boccia è uno di quei tagli di capelli che il tempo te lo regala.
Metto il cappotto nero e mi specchio, il vapore se n’è andato lasciando spazio agli spifferi gelidi.
Tutto bene, colori classici. Ho una festa di 18 anni. Parfait.
Una festa di un’amica, organizzata in un edificio a posta con un arredamento tutto speciale per l’occasione. C’è un bancone dedicato all’open bar dice.
Esco e mi vado a fare un aperitivo con gli amici. Tra una chiacchiera e l’altra si fanno le nove ed è ora di andare.
Arriviamo, ci sono delle macchine parcheggiate, saliamo le scale ed entriamo. La maggior parte degli invitati è arrivata. Sono stati sistemati dei divani bianchi, illuminati all’interno, intorno ai tavolini; sullo sfondo noto il bancone dell’open bar, illuminato dall’interno anch’esso. Dalle pareti grigie mi scivola lo sguardo sulle ragazze, felicemente ben arredate anche loro vedo. Tutte ‘cchittate, diciamo qui da noi.
Salutiamo la festeggiata, poi tra gli sguardi dei presenti, noi ultimi arrivati andiamo ad accaparrarci dei posti a sedere. Ci sentiamo un po’ fuori posto, siamo tipi da taverna tra pochi intimi, ma le novità fanno bene e l’alcool sarà d’accordo. Bottiglie di vino sui tavolini. Riempio il bicchiere, faccio un sospiro e inizia la serata.
Passo il tempo chiacchierando e guardando in giro. Sono uno che osserva sempre e cerco in giro chi lo fa allo stesso modo. Rientro nel dialogo degli astanti, per finta, senza lucidità. Il vino non lo reggo.
Si cena. Buffet a mandate, prendo di tutto un poco e me ne vado a sedere e mangio e bevo e rimangio e ribevo ed infine bevo. Sono bello andante e la serata sembra venirmi incontro sul finire della cena.
Luci spente, rimangono solo quelle dell’arredamento, dalla porta un uomo tutto definito dall’anatomia scultorea improvvisa uno spogliarello alla festeggiata seduta in mezzo a noi. Tutto intorno si ride.  Tutti sbronzi, penso, io con loro.
Inizio a perdere pezzi. Sono al bancone e mi prendo da bere, grappa alla mela verde, me lo scoppio.
Me ne faccio tre quattro e la brillitudine è già un ricordo lontano, la sbronza mi tiene a braccetto e ce la godiamo di brutto. Lei ci prova con me e io con lei.
Tra i parlottii ovattati facciamo pronostici sulla serata: -Tu vai forte stasera (espressione che sta per rimorchi) –, mi dicono scherzando. Io lo spero.
Sono di fuori a fumare, c’è gente, mi faccio strada barcollando, tutti bicchieri in mano. Sorseggio qui e là, fa un freddo che si gela. Vado per rientrare ma no, off limit, sono fuori e l’alcool che è in me mi seguirà tra pochi istanti a ruota. Mi faccio accompagnare da un’amica che è appena arrivata ed è sobria. Lascio una bella sbrattata vicino alla macchina di non so chi. Vedo nero, poi di tutti i colori, poi tutto torna cromaticamente giusto anche se gira senza sosta. Mi riprendo e tempo di salire su, riscendo subito, si va via. Si va a ballare. Potrebbero fare ciò che vogliono di me. Mi parcheggiano come un pupazzo sul sedile posteriore. Da solo.
Si parte. Alla guida la mia amica sobria e accanto un mio amico che è un sosia di Bacco sia d’estetica che di sbronza.
Vedo il semaforo. Lampeggia. I miei neuroni si adeguano a ritmo. Poi buio.
Apro gli occhi, vedo il volto di mio padre, li richiudo. Mi scuotono, mi prendono di peso e mi appoggiano sul letto. Mi manca qualcosa in bocca. Che cazzo succede? Riapro gli occhi, il volto di mio padre è ancora lì ed è sconvolto.
Dico: – Che cazzo succede?
– Avete fatto l’incidente.
– L’incidente?
– Sì, l’incidente.
La cosa che mi manca in bocca è un dente. Non ci sto capendo niente. Poi arriva mia madre, traumatizzata in viso. Sembra averlo fatto lei l’incidente. Poi arrivano gli amici, poi altri amici, poi spariscono tutti e la luce si spegne. Sono le cinque di mattina del 5 dicembre. In quei pochi minuti mi hanno spiegato velocemente l’accaduto.
Vedo il semaforo. Lampeggia. I miei neuroni si adeguano a ritmo. Una macchina non ci dà la precedenza e ci si schianta contro sulla sinistra, all’altezza del conducente. Perdiamo il controllo e impattiamo sulle transenne, le sradichiamo e finiamo la corsa addosso a una rete. Tagliano la cintura alla mia amica, ferita ma non grave; Bacco chiama l’ambulanza che il ragazzo sul sedile posteriore è stato trovato all’incontrario svenuto, con perdite di sangue dalla testa e dalla bocca, cioè io. Arriva l’autoambulanza e mi tirano fuori dormiente, sbronzo, incappottato, sanguinoso. “Da buttar via”, qualcuno avrà pensato, di quella folla paesana accumulata nell’incrocio. Corsa all’ospedale, tutti: incidentati, amici, parenti. Mi hanno fatto stare qualche ora dentro l’ambulatorio mi hanno detto; fuori chi faceva avanti indietro, chi in ansia, chi sbronzo, chi preoccupato. C’è venuto addosso uno che stava alla festa con noi, il colmo, la beffarda coincidenza. Immagino fosse sbronzo quasi quanto me. Di palloncini non è stata aria. Meglio per lui. Alla fine mi tirano fuori dall’ambulatorio, tutto bene, per la gioia degli altri immagino. Mi portano nei dormitori e torniamo in sincro con il presente.
Sono sul letto dell’ospedale, realizzo tutto, gli altri si sono cagati sotto, io non ricordo niente. Mi escono due lacrime dagli occhi, inaspettate. Non ricordo nulla, ma quelle cose le ho vissute tutte: la paura, il caos, l’espressione dei miei genitori; do un  motivo alle mie lacrime. Un vecchio accanto a me scoreggia e io sfinito mi addormento.
Mattina. Mi hanno dato tre giorni di ricovero, non posso alzarmi dal letto per il colpo alla testa, e se cascassi giù sarebbe colpa mia e non dell’ospedale.
Il referto medico dice: Tac alla testa, trauma cranico, rottura parziale incisivo superiore destro, colpo di frusta, alcolismo acuto.
Alcolismo acuto è bellissimo, sorrido. Mi giro a guardare l’anziano accanto che peta assiduamente perché c’ha un problema gastroschifo che gli fa scoreggiare pure i piedi, mentre perde un liquido giallastro che va a riempire una sacca per terra. Bestemmia continuamente tranne quando ascolta musica da un lettore mangiacassette rattoppato con dello scotch. Mi dice che è qui da non so quanto perché deve aspettare che arrivi una macchina per curarlo e non sa nemmeno quanto dovrà attendere. Mi fa pena.

Noto d’avere una flebo nel braccio che è diventato enorme. Mi riaddormento. Mi risveglio più tardi, mi sono venuti a trovare, la flebo non c’è  più, il braccio è così perché l’ago si è sfilato e mi ha riempito il braccio di liquido. Sembro mezzo palestrato e vorrei che anche l’altro braccio fosse così, che sono secchissimo. Chiacchiero, mi spiegano i particolari, che qui non vale la pena raccontare; ricevo altre visite e i pasti ospedalieri che non mangio li lascio al mio compagno scoreggiante che ne fruisce volentieri.
Il secondo giorno decido di alzarmi e di andare a pisciare dentro un cesso, che pisciare nella  notte dentro a un pappagallo al buio, in mezzo ai vecchi, con unico sottofondo lo scroscio dei tuoi liquidi, è una cosa molto imbarazzante per me, che sono un tipo timido. Piscio e vado a trovare la mia amica conducente che è ricoverata al piano di sotto, starà per tre giorni dentro questo posto come me, per vari dolori debilitanti. Ci sono altre persone nella stanza ed è bello stare in mezzo la gente dopo tutto quello che è successo, mi piace. Non so, ma è possibile che la paura della morte sani la misantropia. Nel pomeriggio vado a fumarmi la mia prima sigaretta da ricoverato, c’è un’altra ragazza sulla trentina o poco meno con una benda su un occhio. Ci raccontiamo le nostre storie, mi dice che un tizio l’ha intruppata, l’ha mandata a sbattere contro un albero ed è scappato. Lei rischia di perdere la vista da un occhio. La osservo mentre mi guarda con quello scoperto. Vedo odio e frustrazione, abbasso lo sguardo che sono sensibile, non so cosa dire.
Il resto di quei giorni lo passo leggendo fumetti e ricevendo visite e l’ultima notte la vivo ascoltando lo strazio di un anziano che non riesce a parlare e urla mugugnando per ore. Il vecchio accanto a me scoreggia e bestemmia più del solito perché non resiste più, poi si infila le cuffie e accende il mangiacassette, che sarà l’unico utilizzato in tutto l’ospedale, no in tutto il paese forse. La situazione, nonostante la drammaticità, mi si fa comica e rido tra me e me, nel buio.
Il pomeriggio seguente mi dimettono, prendo i vestiti che indossavo, tranne camicia e maglione che mi hanno tagliato in ambulanza, gli occhiali pure non si sa che fine abbiano fatto. Saranno schizzati dal finestrino, penso. Dice che sono esplosi, che roba.
Torno a casa. Mi specchio. Sono sbattuto, l’ultima volta che l’avevo fatto ero tutto in tiro pronto a fare baldoria. Di solito noi giovani, il sabato sera, cerchiamo di prenderci quelle botte che il giorno dopo ce le devono raccontare. Io l’ho presa la botta, sì, di quelle che poi butti via la macchina e me l’hanno raccontate poi le cose, sì, sono andato fortissimo. So che berrò ancora.
Mi specchio, sorrido, e vedo che la mia fortuna ha un dente rotto.